Continua l’approfondimento sul tema dell’orientamento con un’altra intervista, questa volta al professor Michele Pellerey, docente e ricercatore nel campo delle Scienze dell’Educazione.
In questa intervista, quattro sono i focus tematici approfonditi:
- il valore dell’orientamento per definire il proprio progetto di vita;
- il rapporto tra scelte professionali e personalità;
- le competenze da sviluppare per lavorare come consulenti di orientamento;
- l’importanza del feedback nel contesto lavorativo/relazionale.
L’intervista
Quale il valore unitario dell’orientamento in rapporto al percorso formativo-scolastico, professionale-lavorativo e nel progetto di vita?
A una domanda così impegnativa cerco di rispondere utilizzando un’idea di Paul Ricoeur: aiutare a ricomporre i pezzi (esperienze della nostra vita) in una prospettiva unitaria: chi voglio essere; per questo favorire una riflessione critico-narrativa rivolta al passato ma aperta al futuro. Aiutare a sviluppare la propria identità non solo personale, ma anche sociale e professionale. L’orientamento professionale deve essere intimamente intrecciato con quello esistenziale e culturale. Spesso si considera la scuola solo dal punto di vista culturale e di sviluppo delle competenze di base linguistiche e matematico-scientifiche. Soprattutto nella scuola secondaria sia di primo che di secondo grado non si accompagnano gli studenti a elaborare e sviluppare in concreto e con continuità un progetto di vita e di lavoro. Nell’esperienza scolastica i nostri giovani non sono aiutati esplicitamente ad assumere un atteggiamento imprenditoriale di sé. Ciascun docente si sente responsabile solo dell’apprendimento della propria disciplina. Occorre, invece, una figura educativa che accompagni ciascuno a promuovere consapevolmente lo sviluppo della propria identità personale, sociale, culturale e professionale. In molti paesi è questa la figura del tutor o almeno di un coordinatore di classe che svolga tali funzioni. Da noi dovrebbe svolgere tale impegno il consiglio di classe, ma senza una responsabilità personale chiara nelle riunioni del consiglio di classe ben raramente si considera la totalità della persona. In particolare, progettare e realizzare attività di esplorazione del mondo istituzionale (come visite al comune, a un ospedale, ai vigili del fuoco), attività di servizio (il cosiddetto service learning), conoscenza delle attività lavorative presenti nel proprio territorio. Esperienze che diventano tali se si sollecita e si guida una riflessione critica su di esse. Il dialogo esterno promosso dal tutor diventa dialogo interno e riflessione che orienta la persona a vivere nel mondo reale e a saper apprezzare un lavoro fatto bene, con puntualità e precisione.
Quale relazione tra personalità professionale e scelte professionali? In che modo si interfacciano durante il percorso formativo dello psicologo?
Si tratta di due questioni distinte. La prima più generale sollecita una riflessione critica sull’attività di orientamento professionale e la sua natura e metodologie. La seconda concerne più direttamente i professionisti dell’orientamento. Iniziamo dalla prima. Esiste un personalità professionale? La personalità è una descrizione di natura psicologica di una persona. Nella tradizione si cercava di far corrispondere a una tipologia di personalità una tipologia di lavoro. Per questo venivano prospettati un certo numero di profili professionali e, mediante questionari o interviste, catalogare i soggetti rispetto ad essi. Così erano descritti alcuni ambiti professionali dal punto di vista delle loro esigenze e o prospettare possibili corrispondenze.
Mark Savickas ha riassunto questa impostazione dicendo che tale prospettiva [1] considera il soggetto come un portatore stabile di attitudini, interessi, valori. Rilevare per mezzo di opportuni strumenti tali tratti e caratteri personali è il primo passo. Il secondo passo prende in considerazione il mondo del lavoro, anch’esso considerato abbastanza stabile nella sua configurazione fondamentale, organizzato secondo precise filiere professionali e chiare gerarchie di ruoli. L’attività di orientamento tende a favorire l’incontro positivo e produttivo tra una persona e una specifica posizione lavorativa, sia nel momento preparatorio, quello dello studio e della formazione, sia poi nel momento dell’inserimento effettivo nel lavoro. Questa prospettiva viene descritta da Savickas sotto la formula di “vocational guidance” e collegata alla teoria di Holland sulla congruenza della scelta professionale. Essa ha avuto una grande diffusione e nella pratica e viene applicata “per aiutare i clienti ad acquisire una migliore conoscenza di sé e del lavoro e a realizzare il matching (incontro) tra se stessi e l’occupazione”. [2]
Una seconda prospettiva vede la persona come un soggetto evolutivo, che può impegnarsi nel costruire conoscenze, competenze e atteggiamenti orientati verso specifiche carriere professionali, caratterizzanti il mondo del lavoro, quale viene da esso percepito. L’attività di orientamento fa sì da una parte che l’impostazione formativa sia coerente con tale aspirazione, dall’altra, che la percezione della posizione lavorativa sia valida e aggiornata. Si tratta di quanto passa sotto la denominazione di “career education”. In questa impresa si aiutano le persone: “(a) a comprendere gli stadi del percorso professionale, (b) a conoscere i compiti evolutivi immediatamente successivi, (c) a basarsi su atteggiamenti, convinzioni e competenze necessari a gestire tali compiti”. [3]
Queste due prospettive, secondo Savickas, rivestono tuttora la loro importanza quando si deve rispondere a una domanda relativa a come fare carriera nelle professioni ancora chiaramente gerarchizzate e nelle organizzazioni burocratico-amministrative presenti. L’impostazione della terza prospettiva, denominata “life design”, deriva dalla constatazione che il mondo del lavoro ha ormai caratteristiche instabili, fortemente evolutive sia dal punto di vista tecnologico, sia organizzativo, e che, quindi, è ben difficile fare riferimento a precise figure e ruoli professionali predeterminati. Di conseguenza occorre puntare sul potenziamento di qualità umane e professionali del soggetto, al fine di metterlo in grado di affrontare le incertezze e la complessità del presente e, soprattutto, quelle del futuro, rendendolo così attivo costruttore di sé in vista di progetti esistenziali, aperti anche a profonde forme di decostruzione e ricostruzione della propria identità professionale, che nelle varie transizioni esistenziali si rendessero necessarie. Si evidenzia così da una parte il ruolo del senso e della prospettiva esistenziale, che sta alla base dello sviluppo di sé e delle scelte anche faticose da compiere; dall’altra, si esalta il ruolo della narrazione nella ricostruzione del proprio passato e della riflessione critica su di esso, nonché della prospettazione del futuro, in un impegno di elaborazione o rielaborazione di un proprio progetto di vita.
La seconda questione riguarda la professionalità dello psicologo, una professionalità di ampio spettro che va dallo studioso dei processi e degli stati psicologici alla psicanalista specialista del profondo dell’animo umano. Per questo accanto a termine psicologo occorre aggiungere un aggettivo. A esempio lo psicologo dell’educazione può essere uno studioso dei processi educativi o di apprendimento (e possibili relativi disturbi) o un vero e proprio educatore attento a promuovere uno sviluppo psicologico equilibrato e maturo o aiutare a superare disturbi comportamentali o interiori. L’aggettivo in questi casi indica che l’oggetto proprio della propria azione sono i problemi educativi da affrontare valorizzando concetti e procedimenti di tipo psicologico. Nel caso dell’orientamento esistenziale, sociale, culturale e professionale va applicato lo stesso criterio, tenendo conto però dell’unità della persona, evitando compartimenti stagno. Quanto allo psicologo orientatore nell’ambito professionale, questi deve essere attento all’articolazione, dinamica e alla complessità del mondo del lavoro oggi, ma soprattutto quale è prevedibile nel futuro. Impresa non facile soprattutto tenendo conto delle transizioni digitali ed ecologiche in corso.
Quali competenze di base e strategiche possono coadiuvare lo psicologo in una prospettiva professionalizzante nel campo dell’orientamento? E quali per orientare? Ci può fare qualche esempio di valido strumento?
In primo luogo competenze relazionali: capacità di dialogare, di intrecciare insieme al o agli interlocutori un discorso che li aiuti a dialogare con se stessi, a ricostruire il proprio passato in una prospettiva futura più coesa e consapevole. L’orientatore deve stare attento a non rimanere legato a situazioni e ambienti lavorativi che sono ormai profondamente cambiati o addirittura in via di sparizione. Molti strumenti diagnostici sono legati a periodi storici e contesti culturali lontani dall’attualità, ma soprattutto dal futuro. Persino nell’ambito dei tradizionali servizi pubblici statali e locali, che la digitalizzazione sta trasformando decisamente, occorrono nuove competenze come quelle legate alle cosiddette digital soft skills, come senso di responsabilità etica rispetto alla riservatezza dei dati, alla sicurezza informatica, ecc. In genere è meglio puntare sul rafforzamento delle capacità di autodeterminazione e di autocontrollo, favorendo la riflessione critica sulla propria crescita e maturazione. Di conseguenza diventano preziosi tutti gli strumenti di riflessione che sollecitano la presa di consapevolezza dei processi interni che presiedono alla nostra capacità di leggere e interpretare la realtà, di gestire le proprie emozioni e le proprie relazioni, di prendere decisioni e perseverare nel portare a termine quanto deciso, nell’assumere le nostre responsabilità, ecc.
Il recente sviluppo del suo pensiero si apre alle diverse tappe della formazione e al contesto del lavoro d’impresa. Quale ruolo ha il feedback in rapporto al sé e alle proprie risorse in un contesto lavorativo/relazionale?
La questione del ruolo del feedback fisico e sociale è poco presa in considerazione sia nei contesti formativi, sia lavorativi. Invece è centrale. Si apprende a vivere interagendo con l’ambiente fisico, naturale, comunitario, sociale. In primo luogo si impara a comunicare (es. parlare) e ad agire (es. allacciarsi le scarpe) osservando gli altri e cercando di imitarli e verificando le loro reazioni (di consenso o meno, o di suggerimento). In particolare il feedback che proviene dalle persone alle quali siamo più legati affettivamente o per dipendenza lavorativa influenzano i nostri comportamenti e i nostri sentimenti. Ma non si tratta solo di reazioni fisiche o verbali di esseri umani. Oggi nel mondo del lavoro si affaccia un tipo di attività collaborativa che coinvolge robot intelligenti: i cosiddetti cobot (collaborative robot). Con questi sempre più nel tempo occorrerà saper interagire. Già oggi abbiamo a che fare quotidianamente con chatbot (chatter robot), robot conversazionali usati dai cosiddetti instant messengers (telegram, facebook, instagram,…), ma anche da grandi organizzazioni come Amazon e Ryanair. Più delicato è il caso di robot conversazionali che intervengono nella selezione del personale di grandi aziende già oggi presenti e utilizzati anche in Italia da società specializzate.
La realtà del feedback implica in generale il saper comunicare e collaborare in contesti nei quali il feedback non sempre è positivo e costruttivo, il saper gestire le proprie reazioni emozionali in queste situazioni in modo non distruttivo, il saper imparare dalle osservazioni, dai commenti e dalle critiche degli altri o dei superiori. Anche in questo caso si tratta di capacità di autoregolazione in contesti sia positivi, sia negativi.
[1] Le idee seguenti sono state esposte da Mark Savickas in varie occasioni. In particolare, si possono citare i seguenti testi: M. Savickas et alii, Life design: a paradigm for career construction in the 21st century, Journal of Vocational Behavior, 2009, 75, pp.239-250; M. Savickas, Career counseling. Guida teorica e metodologica per il XXI secolo, Trento, Erickson, 2014.
[2] M. Savickas, Career counseling. Guida teorica e metodologica per il XXI secolo, Trento, Erickson, 2014, p. 22.
[3] Ibidem