Questo breve articolo vuole essere un’introduzione al fenomeno del burnout, con l’obiettivo di stimolare l’interesse sul tema anche nei “non addetti” ai lavori.
Il termine burnout, letteralmente “bruciato, scoppiato, esaurito”, è ormai utilizzato con sempre maggior frequenza in varie tipologie di lavoro. Utile, pertanto, è poter disporre di qualche semplice nozione per meglio comprenderlo.
Si parla di burnout per la prima volta negli anni trenta nell’ambito del giornalismo sportivo, per indicare l’incapacità di un atleta, dopo avere ottenuto successi, di continuare a mantenere l’elevato rendimento. Successivamente il termine è stato adottato in ambito socio sanitario, in primis da Freudenberger che nel 1974 lo impiegò con riferimento ai lavoratori di un ospedale pubblico. Pur non potendo contare ancora oggi su una definizione univoca, si è concordi nel concepire il burnout come una sindrome (cioè un insieme di sintomi) caratterizzata da un graduale esaurirsi delle risorse psicofisiche del soggetto che “si brucia” nel tentativo di adattarsi alle difficoltà legate alla propria attività lavorativa. A soffrirne sono principalmente gli operatori dell’area socio-sanitaria, ed in generale tutte quelle professioni (denominate helping professions) che per la natura del lavoro sono a contatto continuo e prolungato con persone che vivono situazioni di particolare urgenza o gravità. È bene precisare che le cosiddette professioni di aiuto vanno ormai intese in senso ampio, in quanto vi rientrano certamente medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali ma anche poliziotti, insegnanti, vigili del fuoco, etc.
Come inizia il percorso che porta al burnout?
Occorre innanzitutto considerare che chi opera nell’ambito delle professioni di aiuto si trova spesso a gestire situazioni intense dal punto di vista emotivo. In mancanza di condizioni di lavoro adeguate sotto il profilo organizzativo (es. sovraccarico lavorativo, turnazioni, ecc.) e di supporto sociale, è possibile che l’operatore si ritrovi a percepire la condizione lavorativa sempre più difficoltosa in termini di gestione, fino a diventare per lui intollerabile. Ecco allora che le risorse di cui dispone, sia soggettive che oggettive, si rivelano insufficienti o inadeguate per rispondere alle richieste degli utenti, che rappresentano il punto focale del suo lavoro. Al graduale esaurimento delle risorse si associa una riduzione graduale dello slancio con cui l’operatore vive le relazioni professionali; al punto che quando esse non possono essere evitate, vengono vissute addirittura con fastidio, se non con cinismo. La condizione stressogena che viene a determinarsi, se non opportunamente trattata, finisce col divenire cronica, favorendo nel soggetto percezioni di inadeguatezza e conseguenze negative di varia natura, fisica, psichica e sociale.
Tra i diversi autori che si sono occupati specificatamente del tema, citiamo in questo articolo Burisch (1995) che descrive il quadro clinico, costituito da sette principali tipologie di sintomi, con cui nel tempo si sviluppa la sindrome: sintomi premonitori, riduzione dell’impegno, reazioni emotive (abbassamento del tono dell’umore), colpevolizzazioni (nei confronti degli altri e del sistema), declino (perdita di motivazione), appiattimento (chiusura in se stesso), reazioni psicosomatiche, disperazione (perdita di ogni speranza riguardo al cambiamento della situazione).
Christina Maslach e Michael P. Leiter, nel loro fondamentale lavoro di riferimento (1997), descrivono i tre elementi che caratterizzano il burnout, ovvero l’esaurimento emotivo (sentirsi svuotato emotivamente), la depersonalizzazione (assumere un atteggiamento di allontanamento e rifiuto verso gli assistiti), e la ridotta realizzazione professionale (sentirsi inadeguato).
È quindi intuibile che a determinare il fenomeno del burnout sono prevalentemente il contenuto della professione ed il contesto nel quale essa viene svolta (ambiente, regole, colleghi, etc.), elementi in grado di attivare dinamiche disfunzionali, ovvero fonti di stress ai quali il soggetto non riesce nel tempo a farvi fronte. Bisogna però anche tenere in conto che le condizioni di vita extra lavorativa e/o le caratteristiche di personalità dello stesso possono giocare un ruolo di fattori aggiuntivi all’innescarsi del processo psicofisico di sovraccarico talvolta squisitamente emozionale, processo che può esitare anche in una ampia schiera di sintomi presenti oltre i tre aspetti prima indicati. Si possono riscontrare: costante sensazione di stanchezza ed esaurimento fisico, frequenti mal di testa, problemi digestivi, ansia costante e pensieri polarizzati sul lavoro, senso di frustrazione e tono dell’umore depresso, irritabilità accentuata, peggioramento delle relazioni affettive e degli interessi, etc. Per comprendere la tipologia dei sintomi e la loro intensità, occorre anche considerare come il diverso modo con cui gli individui interagiscono con l’ambiente di riferimento influisce sulla loro risposta di adattamento; questo, infatti, può determinare una maggiore o minore vulnerabilità allo stress di tipo negativo, il cosiddetto distress.
Il legame tra fattori (fonti) di stress lavorativo e conseguente burnout è fortemente presente in letteratura. La sindrome, dunque, può essere correttamente considerata uno dei possibili esiti del processo psicofisico di distress che si attiva, per alcune professioni in particolare, a causa di una forte discordanza tra la natura del lavoro e la natura delle persone che svolgono tale lavoro sostanzialmente in sei ambiti della vita organizzativa: carico di lavoro, controllo, ricompense, senso comunitario, equità, valori (Maslach e Leiter, 1997).
Aggiungiamo poi che le conseguenze non investono solo l’operatore ma anche gli utenti che allo stesso si rivolgono per assistenza e aiuto; in ultima analisi è comunque coinvolta la stessa struttura che non fornisce un servizio efficace. Spesso si assiste, infatti, ad una riduzione quantitativa degli interventi nonché ad un deterioramento della qualità dello stesso servizio offerto.
È dunque molto importante lavorare sulla prevenzione; allo scopo è essenziale ribadire che il processo di sovraccarico psicofisico che si manifesta nel burnout non è riconducibile ai soli aspetti di vulnerabilità individuale o di accadimenti negativi. Deve pertanto essere affrontato complessivamente tenendo in debito conto tutti gli attori coinvolti per poter orientare strategie efficaci allo scopo. Questo significa agire su più livelli, da quello organizzativo a quello del gruppo ed individuale. In altri termini si prospettano, in coerenza con la letteratura, due principali strategie: gli interventi sui singoli per aumentarne la capacità individuale di fronteggiamento e gli interventi di valutazione del rischio stress lavoro correlato ai sensi dell’art. 28 del D.Lgs 81/08 e s.m.i. (testo di riferimento sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro).
Alcuni riferimenti bibliografici: