E’ il 16 aprile del 1967: una foto in bianco e nero immortala il momento in cui un giudice di gara della maratona di Boston strattona l’atleta con il pettorale n. 261 per impedirgli di tagliare il traguardo. Di quale violazione era responsabile quell’atleta? Aveva un rossetto rosso e lunghi capelli mossi. Era una donna. Kathrine Switzer è la prima donna a partecipare a una maratona e, visto che si supponeva che il corpo femminile fosse inappropriato per quella competizione, la sua trasgressione è uno scandalo e anche il primo passo per l'abbattimento di un tabù. Di storie come queste se ne potrebbero raccontare tante: ipocriti giudizi di inadeguatezza per escludere le donne dalle competizioni sportive o, quantomeno, per tenerle ai margini del campo. Giova sempre dire che i tempi sono cambiati. Sì, lo sono. Ma non abbastanza, visto che sul tema dell’accesso allo sport grava ancora un importante disparità di genere. Qualche dato su cui sono state fatte ricerche documentate: i genitori ritengono che fare sport sia più importante per i figli maschi che per le figlie femmine; le ragazze nella pubertà hanno molta più probabilità di abbandonare l’attività sportiva dei ragazzi (il fenomeno che si chiama drop out); le donne dopo i quarant’anni ammettono che fare sport sarebbe importante per la propria saluta fisica e mentale ma l’organizzazione del quotidiano (calibrare il tempo delle priorità: lavoro, casa, famiglia) rende l’opzione di investire nello sport una pallida chimera.
Per non parlare, sempre stando alle statistiche, dello sport “societario”. Le donne rappresentano solo il 18% degli allenatori qualificati, percentuale che scende al 9% nel caso degli allenatori senior. Nel 2016, meno del 30% dei soggetti negli organi direttivi olimpici, il 16,6% nei Comitati Olimpici Nazionali e il 18% nelle Federazioni Sportive internazionali erano donne. Questo orienta anche le scelte di marketing: molto più redditizio “spingere” atleti maschi, che godendo di più visibilità mediatica fanno aumentare gli introiti, suffragando un meccanismo molto ben oleato.
La psicologia ci consente però di guardare tra le pieghe dei meccanismi, di allargare lo sguardo in cerca di orizzonti più ampi. E se prevalentemente si associa la Psicologia dello Sport con l’area della performance sportiva (chi può mettere in discussione che per uno sportivo l’equilibrio emotivo e la motivazione psicologica valgano tanto quanto una buona preparazione fisica?), questa branca della psicologia si occupa anche di dare nuove chiavi di lettura e d'intervento rispetto a quella che Jung chiamerebbe la coscienza collettiva, ovvero quel complesso di giudizi a-priori, griglie di pensiero e interpretazione del reale, modelli di comportamento acquisiti e validi “per lo più”, a cui difetta l’acutezza di sguardo, il luogo della rottura, del ripensamento, del cambiamento.
Il gruppo di lavoro Psicologia dello Sport e dell’esercizio fisico dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, coordinato da Luana Morgilli insieme ai colleghi Maria Maddalena Ferrari e Sergio Costa, insieme a Paola Biondi (referente delle Pari Opportunità dell’Ordine), ha realizzato nel 2023 una campagna di sensibilizzazione sulle tematiche che riguardano le differenze di trattamento tra atleti ed atlete e le difficoltà connesse all'essere donna nell'ambito sportivo. Nella doppia intervista realizzata dal gruppo, in cui gli atleti della Nazionale di Pallanuoto Domitilla Picozzi e Marco Del Lungo si confrontano sulla loro esperienza sportiva, alcuni aspetti banali evidenziano come lo sport sia sostanzialmente tarato sul maschile: dagli allenamenti nelle ore serali, che allarmano le atlete e le obbligano in alcuni casi a fare gruppo per potersi spostare in sicurezza, alle differenze di trattamento economico.
C’è quindi molto che il contributo della psicologia può dare per sensibilizzare gli ambienti sportivi in primis ma anche la società estesa, per ridurre stereotipi e storture che rendono l’esperienza sportiva per le donne più problematica. La campagna dell’Ordine è così confluita in un evento ad ottobre su “disparità nello sport” dove si sono confrontati docenti, esperti ed esperte, sportivi e sportive e rappresentanti istituzionali sul profilo del fenomeno dell’abbandono femminile dello sport, sulle possibili azioni di contrasto, sui margini per una progettualità condivisa in grado di garantire pari diritti tra i generi nella pratica sportiva. L’accoglienza dell’iniziativa è stata entusiastica, e ha dato il segno che si sta percorrendo una strada prolifica.
Una paziente recentemente mi raccontava che, dopo la fine di una relazione violenta, la cosa che insieme alla psicoterapia l’aveva più nutrita nell’operazione di ricostruzione del senso di sé, era stato lo sport. Imparare a remare ed entrare in una squadra di canottaggio le aveva restituito quella percezione esatta delle possibilità del suo corpo di reagire, quella riconnessione con l’istinto che la relazione violenta aveva totalmente mandato in pezzi.
C’è molto che come psicologhe e psicologi possiamo fare nel sostenere il potenziale che lo sport, inteso come esercizio fisico ma anche come strumento per ancorare la consapevolezza di sé, può avere in un discorso culturale che recuperi il corpo come soggetto primario di esperienza. In qualsiasi genere in cui la percezione di sé si incarni.