Un articolo online del 24 giugno de “Il Centro” di Teramo titola in modo clamoroso: “A due mesi s’ammala di anoressia, salvata con un ciuccio speciale”.
Non è semplice scrivere un commento su questo genere di notizie: prima di tutto perché toccano temi delicati sui quali si vorrebbe esprimere una riflessione senza incentivare polemiche e poi perché si tratta di situazioni in realtà complesse, anche solo dal punto di vista “tecnico” (la gestione dell’allattamento), di cui, in fondo, non si sa nulla se non ciò che viene sommariamente riportato.
Tuttavia un commento è doveroso, in quanto questa notizia tocca molti dei temi di cui si occupa la psicologia perinatale: la relazione fra l’operatore sanitario e la persona, la formazione degli operatori riguardo ai processi della fisiologia, la qualità dell’assistenza in un’ottica multidisciplinare e il sostegno alle competenze delle persone in un quadro di promozione della salute.
Per questo abbiamo chiesto alla dott.ssa Antonella Sagone, psicologa in area perinatale, formatrice e Consulente professionale in allattamento materno (IBCLC), di offrire un commento scritto su questa vicenda.
Storie come questa, osserva la dott.ssa Sagone, richiedono una riflessione su vari piani: un piano relativo ad informazioni tecniche, uno di riflessione sul tipo di assistenza che riceve una donna che allatta e su come avviene o dovrebbe avvenire questa assistenza rispetto ai diversi ambiti e competenze dei vari professionisti, infine una riflessione su come gli eventi, in questi casi, vengano tipicamente elaborati dai Media e, nel processo di trasformazione in “notizia”, vengano trasformati in “storie” volte a rinforzare un paradigma che descrive e definisce in modo stereotipato la relazione medico-paziente e rinforza tutta una mitologia legata all’idea culturale di allattamento e di relazione diadica.
La vicenda
Ed ecco in breve la vicenda, così come viene riportata nell’articolo:
– una bambina di 3 mesi viene ricoverata per disidratazione nel reparto di Pediatria dell’ospedale Mazzini di Teramo.
– si riferisce che il latte della mamma “scarseggiava” già a due mesi e che era completamente finito a 3 mesi e la bambina rifiutava il biberon “in maniera ostinata”, accettando solo il ciuccio.
– la bimba viene messa sotto flebo ma nessuno, né parenti, né personale ospedaliero, riesce a farla poppare da un biberon.
– le infermiere “inventano” un modo per far arrivare il latte alla bimba da una siringa al ciuccio attraverso un sondino e così finalmente la bambina viene alimentata con formula.
Il primario del reparto, che è anche referente regionale della Siridap (Società Italiana Ricerca Disturbi Alimentari e del Peso), definisce il caso come “anoressia del lattante”, legata a un disturbo della relazione di attaccamento: in poche parole la bambina, vedendo venire meno la fonte di nutrimento del seno, si sarebbe sentita minacciata di abbandono e avrebbe sviluppato il rifiuto ad alimentarsi.
L’aspetto tecnico
Nella mia esperienza di psicologa in area perinatale e IBCLC questo quadro mi si presenta spesso e racconta di una grande solitudine della neomadre, con un allattamento che declina tipicamente a causa di un’errata gestione delle poppate e/o di una suzione poco efficace del bambino (la suzione al seno e quella al biberon sono totalmente diverse, il bambino può faticare a passare dall’una all’altra, oppure può diventare disorganizzato in entrambe le situazioni). A monte di queste vicende c’è una storia di mancato sostegno, sia da parte degli operatori che della società, e di ricerca vana di informazioni e aiuto per recuperare un allattamento che raramente è in crisi per motivi endogeni (l’incapacità a produrre latte è un fenomeno molto raro che gli studi definiscono intorno all’1%).
Va aggiunto che in situazioni di emergenza, e dovendo eventualmente integrare un apporto insufficiente di latte materno, l’aggiunta può essere data in molti modi, di cui il biberon è spesso il meno appropriato, pur essendo quello universalmente diffuso. Esiste ampia scelta di “attrezzature” e metodi anche semplici per somministrare un’integrazione, fra cui l’alimentazione al dito (con siringa e tubicino), la somministrazione tramite tazzina o bicchierino (di estrema semplicità). Tutti questi ausili e metodi sono noti ed utilizzati in tutto il mondo, nelle situazioni di confusione di suzione e di recupero della produzione di latte, dai Consulenti in allattamento e dagli altri operatori sanitari che operano con competenza nell’area della lattazione.
Non conosco la vicenda di questa mamma e di questa bambina, quindi posso solo fare ipotesi, seppure facilitate da 20 anni di studio e di pratica. Non posso comunque fare a meno di prendere atto di una situazione in cui la mamma è stata lasciata sola per diverse settimane nel corso di una crisi di lattazione che, con ogni probabilità, poteva essere recuperata e risolta e posso immaginare che da più parti le sia stato detto che il suo latte era poco nutriente o “stava finendo” e le sia stata proposta, come unica via di uscita, l’aggiunta di formula con il biberon.
Ogni volta che mi trovo di fronte a questo tipo di situazioni mi chiedo come sia possibile che una donna che desidera allattare e si trova in difficoltà non riesca a ricevere le informazioni essenziali e l’assistenza tecnica di base per prevenire e recuperare rapidamente le situazioni di rischio, tanto da finire per ricorrere a un ricovero ospedaliero.
Gli ambiti di competenza
In questo quadro di insieme, mi chiedo anche perché debba essere coniata una diagnosi, per altro fuori standard, prettamente psicologica per giustificare una condizione di crisi che con estrema probabilità ha origini tutt’altro che radicate nelle dinamiche psicologiche e relazionali della diade, ma molto più semplicemente racconta di un’assenza di affiancamento competente nell’ambito della lattazione.
Si può parlare di “anoressia” in una neonata di 2 mesi? Evidentemente no e difatti tale diagnosi ha bisogno di venire ritoccata. Il primario specifica infatti che in una neonata non si può parlare (ovviamente) di “desiderio di magrezza”, tipico dell’anoressia, precisando che seppure tale quadro clinico non sia compreso nel DSM5, si può considerare come una variante rara del “disturbo alimentare evitante restrittivo”.
La mia impressione è che si voglia per forza far entrare un oggetto quadrato in un foro circolare e cioè forzare una diagnosi di tipo psicologico per spiegare, in modo laborioso e contorto, una costellazione di sintomi che hanno in realtà un’origine semplice e del tutto diversa, ma ignota a chi effettua la valutazione.
C’è inoltre da chiedersi a chi spetti diagnosticare e per di più divulgare diagnosi relative a disturbi della relazione affettiva fra madre e bambino e come mai non vengano attivate in questi casi, e cioè quando si abbia il dubbio di una problematica psicologica, quelle sinergie con i professionisti che per percorso formativo e profilo di competenze si occupano proprio di questo.
Nella mia pratica clinica come IBCLC e psicologa lavoro in rete con professionisti di tante diverse discipline: educatori, medici, ostetriche, infermiere professionali, e i risultati ottimali si raggiungono proprio quando le diverse figure professionali riescono a lavorare in sinergia e non in competizione o sovrapposizione. Un ampio approfondimento di tale tematica è stato effettuato nel convegno promosso nel 2015 dall’Ordine degli Psicologi del Lazio “La promozione della salute perinatale” la cui registrazione integrale è visibile cliccando qui
Il messaggio mediatico
Come sempre avviene in questi casi, la vicenda umana, unica e irripetibile di quella madre e di quel bambino, viene rielaborata per diventare una narrazione coerente con una serie di stereotipi e di credenze consolidate; una storia che insieme colpisce con aspetti clamorosi (una neonata che per rarissimo caso manifesta un disturbo alimentare “da adolescente”), ma al tempo stesso rassicura, adagiandosi nei luoghi comuni di un paradigma noto.
L’articolo descrive la vicenda con i toni narrativi della storia di una bambina in pericolo di vita, fortunatamente salvata dall’acume diagnostico del medico e dall’ingegnosità delle infermiere, il cui “attrezzo” inventato viene anche raffigurato nella foto che illustra la pagina.
I messaggi veicolati dall’articolo sono:
– allattare è un processo capriccioso e incerto e spesso il latte finisce precocemente
– i bambini spesso falliscono nell’attaccarsi al seno non perché ci sia una difficoltà ma per “rifiuto” del seno o della mamma
– i genitori spesso sono carenti di esperienza e se privi di guida facilmente cadono in errore, mettendo a rischio la salute dei loro figli
– fortunatamente possono affidarsi a prodotti sostitutivi eccellenti, medici esperti ed infermiere preparate, che sono in grado di prendere in mano la situazione e correggere gli errori, salvando vite.
In questo paradigma non c’è spazio per l’empowerment della madre, per l’espressione e realizzazione delle sue competenze e di quelle del bambino: un’occasione mancata per la diade, ma anche per gli operatori sanitari e per i giornalisti.
E’ da auspicare un’adeguata diffusione delle corrette informazioni e un’inversione di approccio che includa una formazione adeguata della fisiologia in modo da proteggerne i processi e che inneschi un circolo virtuoso imperniato sulla salutogenesi. Occorre un cambiamento culturale e di approccio che rispetti nella madre e nel bambino la libertà di esprimere pienamente il loro potenziale biologico ed affettivo, generando autonomia e competenza e che restituisca ai giornalisti il piacere di diffondere conoscenza e verità. Che restituisca agli operatori sanitari la dignità di una relazione medico-paziente con equa distribuzione delle responsabilità, l’arricchimento di confrontarsi e cooperare con professionisti di diverse discipline e la soddisfazione di praticare la professione in modo realmente appagante.